Elleboro nero

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Titolo

Elleboro nero

Descrizione

Helleborus niger L.
FAMIGLIA: Ranunculaceae
GENERE: Helleborus. Genere che include 15 specie e 6 sottospecie (di cui una decina spontanee in Italia).
NOMI LOCALI: elabro nero, elleboro bianco, fava di lupo, rosa di Natale, anticircone, anticirone, ardile, branca lupina, bucaneve, campuren, cucs, draguna, duracò, erba del mal siton, erba dragon, erba lupa, erba nocca, fior de quaresima, forane, lebro, lepro neri, nocea, piè di diavolo, ria, scoassu, starnuto, tortelli di lupo, fiùr del lüf.
In tedesco è chiamato Schneerose, Christrose, Schwarze nieswurz; in inglese Christmas rose, black hellebore; in spagnolo rosa de Navidad, eléboro negro e in francese rose de Noël, ellébore noir.
PERCHÉ SI CHIAMA COSÌ: risalire all'etimologia del nome non è per niente facile: è vero che il nome "elleboro" deriva dal greco ἑλλέβορος (latinizzato in Helleborus da Plinio), pianta ampiamente citata nel Corpus ippocratico e da Dioscoride (Ippocrate di Coo è stato un medico ed è considerato il padre della medicina scientifica; invece Dioscoride Pedanio è stato un botanico e medico greco antico vissuto nella Roma imperiale sotto Nerone). Ma il nome ἑλλέβορος veniva utilizzato per designare indifferentemente l'Helleborus orientalis, Helleborus cyclophyllus, l'Eranthis hiemalis, l'Actaea spicata e soprattutto il Veratrum album; questo ha generato non poca confusione, tanto che tra i nomi italiani, per definire l'elleboro bianco, c'è "elabro" incrocio dei nomi ellebŏrus e veratrum, e spiegabile col fatto che veratro e elleboro venivano chiamati nello stesso modo pur trattandosi di piante diverse. Alla confusione diede ovviamente il suo contributo il nostro grande arraffone enciclopedico: Plinio il Vecchio, che nella sua Naturalis historia si dilunga nel descrivere pregi e inconvenienti dell’elleboro e del veratro, confondendoli continuamente come se fossero la stessa pianta. Ma torniamo all'etimologia di ἑλλέβορος: alcuni storici fanno derivare ἑλλέβορος da ἑλω hélo io elimino, uccido e da βορά borá cibo, pasto: facendo riferimento alla velenosità della pianta se ingerita; altri invece dal nome del fiume che attraversa la città di Anticira (in greco: Αντίκυρα, traslitterato: Antìkyra) questa città della Focide nel golfo di Corinto, a 20 km da Delfi, in epoca ellenistica divenne particolarmente celebre perché molti malati vi soggiornavano per curarsi, utilizzando l'elleboro che vi cresceva rigoglioso, pratica ampiamente citata da Orazio.
L'aggettivo specifico "nero" si riferisce al rizoma bruno/nerastro segnato da cicatrici fogliari e da tuberosità irregolari. L'aggettivo "bianco", preferito da alcuni, si riferisce invece al colore del fiore. I nomi "rosa di Natale", "bucaneve", “Christmas rose”, “Rose de nöel”, "Christrose” o “Schneerose” sono tutti termini legati al periodo di fioritura.
Viene chiamato "starnuto" o "nieswurz" perché dai rizomi essiccati e polverizzati, si ottiene una polvere capace di esercitare un’azione irritante locale molto potente, utilizzata come “starnutatorio”, per provocare cioè gli starnuti, irritando la mucosa nasale.
Tutti i nomi legati al lupo invece sono spiegabili sia con la tossicità "malignità" della pianta, come quella un tempo attribuita al lupo, sia al fatto che il periodo di fioritura dell'elleboro coincide con il periodo riproduttivo dei lupi, e questo li ha fatti associare nell'immaginario collettivo; non solo, questo fiore è considerato un fiore legato alla luna, così come il lupo.
DESCRIZIONE: pianta perenne, erbacea, dotata di rizoma scuro. Il fusto semplice, non ramificato è molto carnoso, liscio e pieno, è alto 20-30 centimetri.
Le foglie foglie basali, lungamente picciolate, si presentano con una lamina divisa totalmente in 7/9 segmenti (lembo fogliare di tipo palmato-diviso). Il margine dei segmenti è dentato, e può essere anche spinescente a seconda della subspecie; le foglie sono di colore verde scuro, lucenti e coriacee: le foglie nuove compaiono da marzo, alla scomparsa dei fiori, formando, in estate, folti cespugli.
Le foglie cauline sono ridotte a delle brattee alla base dei peduncoli fiorali.
I fiori sono solitari o, più raramente, a coppie, sono fiori primitivi, quindi il calice è formato direttamente da sepali modificati (sepali petaloidi), di forma ovato-oblanceolata; di colore bianco soffusi di rosa a maturità con al centro numerosissimi stami bilobi di colore giallognolo disposti a spirale.
I petali veri e propri (da 8 a 12) sono invece ridotti a piccoli cornetti tubulari con funzione nettarifera provvisti all'apice di un'unghia (sono più corti degli stami, meno della metà). Fiorisce da dicembre a marzo.
Essendo un fiore primitivo l'ovario è apocarpico, cioè i carpelli che lo formano sono separati e ogni carpello darà luogo a un frutto. (Un carpello è una foglia modificata con funzione riproduttiva, costituente il gineceo).
I frutti sono composti da 6÷7 follicoli rigonfi lunghi circa 2 cm, muniti di rostri, contengono numerosi semi oblunghi, di colore nero brillante.
DOVE CRESCE: è una specie a distribuzione prevalentemente centroeuropea presente lungo tutto l'arco alpino salvo che in Valle d’Aosta e Liguria. Cresce nel sottobosco di pinete e faggete, su suoli ricchi di humus e con substrato calcareo, con optimum nella fascia montana, fino ai 1000 m slm.
COSA SI UTILIZZA: nulla
QUANDO SI RACCOGLIE: non si raccoglie, è una pianta protetta da diverse leggi regionali e nazionali. Non solo, se voi lo recidete, come tutte le Ranunculaceae, una volta reciso libera le sostanze tossiche, che finiscono nell'acqua e uccidono la pianta stessa! Quindi pirla due volte: perché non si raccoglie per nessun motivo e perché non dura una volta reciso! 😉 E non è un caso che i fioristi non li vendano recisi bensì in vaso!
PROPRIETÀ: contiene elleboreina un glicoside (C37H56O18) che costituisce insieme all'elleborina il principale principio attivo degli ellebori, contiene anche acido aconitico e oli essenziali; queste sostanze sono particolarmente concentrate nel rizoma. L'elleboreina e l'elleborina eserciterebbero un’azione tonica sulla muscolatura del cuore e un’azione inibitrice sulla conduzione atrio-ventricolare con un meccanismo molto simile a quello della strofantina e della digitale: molto rapido e senza accumulo.
Tuttavia, nonostante la validità del principio attivo, l'elleboreina è stata largamente usata per le esperienze sul cuore isolato di rana riproducendo le azioni caratteristiche della digitalina, ma in pratica non è usata per via interna, perché, mentre piccole dosi rimangono senza effetto, dosi maggiori (g 0,05-0,15) hanno una marcata azione narcotica e irritano fortemente la mucosa intestinale provocando violente diarree senza palesare netta azione sul cuore.
Come riportato da Riva in L’universo delle piante medicinali, Tassotti editore, 1995, già Ippocrate nel 400 a.C. conosceva l’elleboro e sosteneva che la pianta svolgesse nel sangue un’azione generale e riuscisse a cacciare gli “umori cattivi” essendo un purgante drastico e nello stesso tempo, provocando il vomito.
La fama dell’elleboro però è legata soprattutto alla cura di disturbi mentali e neurologici (ad esempio epilessia). Racconta Erodoto nel 400 a.C. di una celebre guarigione compiuta da Melampo, indovino di Argo, il quale guarì dalla pazzia le figlie di Preto, re di Tirinto, che credendo di essere delle giovenche vagavano nude per la foresta. Melampo somministrò loro del latte di capre che si erano cibate della pianta guarendo le principesse; ciò gli valse un lauto compenso; egli divenne re di Argo sposando una delle figlie di Preto ed ebbe la fama ufficiale di guaritore e il privilegio di aver per primo introdotto nella terapia delle malattie mentali questa pianta. Sotto il nome di “melampodium” infatti, l’elleboro rimase per molto tempo uno dei medicamenti più diffusi nella cura della pazzia.
Lucio Giunio Moderato Columella nella sua opera "De re rustica" citò l’elleboro come rimedio per combattere la scabbia di vecchia data del cavallo: bastava cuocere zolfo e elleboro nella pece liquida mescolata a strutto e poi curare le parti malate con questa composizione, dopo aver lavato la pelle con l’urina. Lo stesso preparato serviva anche, se mescolato al cumino, a cacciare le pulci dai cani.
Nei primi dell’800 l’elleboro venne inserito nelle farmacopee come medicamento purgativo drastico e starnutatorio.
L'avvelenamento si manifesta con cefalea, vertigini, rallentamento del polso, bruciore e asprezza alla bocca, vomito, diarrea, delirio, sonnolenza, collasso e morte per arresto cardiaco, senza che la coscienza sia alterata. Attenzione a maneggiare troppo la pianta, dato che è uno dei pochi fiori le cui sostanze tossiche possono essere assorbite anche attraverso la pelle, infatti l’elleboro ha la capacità, tra l'altro, se applicato fresco sulla cute, di provocare la comparsa di eritemi sierosi.
UTILIZZO CULINARIO: nessuno
UTILIZZO ESTERNO: nessuno
UTILIZZO INTERNO: nessuno
COME SI CONSERVA: pianta protetta da diverse leggi regionali e nazionali, allo stato spontaneo non si raccoglie. È però una pianta coltivabile in giardino: ideale è coltivarla su un terreno umido, alcalino, a mezz'ombra.
CURIOSITÀ: una leggenda riguardante la genesi dell'elleboro narra di una pastorella di nome Madelon, che vedendo con quali preziosi regali i Magi avevano omaggiato Gesù, si disperò perché non aveva nulla da offrire. Fu così che dalle sue lacrime nacquero meravigliosi fiori bianchi con antere dorate, con i quali anche lei poté fare un dono a Gesù.
L'elleboro è sempre stato ritenuto una pianta potentissima capace, secondo alcuni, di evocare gli spiriti dell’aldilà: si credeva fosse una delle piante usate dalle streghe per le loro pozioni magiche e si attribuiva all’elleboro il potere di rendere invisibili le persone. Secondo una leggenda inglese se si sparge la polvere della radice mentre si cammina, questa ci renderà invisibili. Sempre secondo un'altra leggenda inglese esiste una fata nei boschi che si divertiva ad invitare i ragazzi a bere il succo delle foglie dell'Helleborus niger per far sì che ballassero con lei nel regno delle fate.
Infatti i ragazzi non ancora sposati quando vedevano la pianta nei boschi dovevano allontanarsi chiudendo gli occhi.
In letteratura, si ritrovano numerose citazioni su questa pianta. Petronio Arbitro dice nel suo Satyricon [88,4]: "Chrysippus, ut ad inventionem sufficeret, ter Elleboro animum detersit", cioè, "Crisippo, per affinare la sua capacità percettiva, per tre volte si schiarì la mente con una pozione di Elleboro". Pare infatti che gli antichi filosofi ricorressero a questa pianta per raggiungere uno stato ipnotico, molto simile alla meditazione profonda.
Anche Quinto Orazio Flacco ne parla nel suo Satyrarum (Terza Satira – Libro II): "Danda est ellebori multo pars maxima avaris"; poiché noto rimedio contro la pazzia, in questo caso degli avari.
Nel XIX secolo Francesco Domenico Guerrazzi nel cap. XXVI dell' "Assedio di Firenze" esclamava: "Ah, storico, invece di spendere in inchiostro comprati l'elleboro, tu sei pazzo."
Esiste anche un altro modo di dire latino, documentato in Plauto e Orazio, "Così matto che neppure un campo di elleboro ti guarirebbe" proprio legato agli antichi utilizzi.
Gabriele D’Annunzio scrive: "Vammi in cerca dell’Elleboro nero che il senno renda a questa creatura." La figlia di Iorio: tragedia pastorale in tre atti (Milano, Fratelli Treves, 1904).
Queste citazioni si spiegano perché l'elleboro nell'antica Grecia era considerato un rimedio contro le "malattie mentali": le leggende dicono che Ercole guarì dalla pazzia proprio grazie all'elleboro. Era credenza comune, infatti, che il decotto delle radici fosse un valido rimedio per la pazzia. Mattioli confermò questa proprietà e dichiarò di averne verificato di persona l'efficacia contro diverse malattie mentali.
Mattioli è legato all'elleboro da un'altra cosa importantissima: nei suoi Commentari a Dioscoride – Commentarii in libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei De Materia Medica (Venetiis, apud Valgrisium, 1554), è stato il primo a fare notare e chiarire l'ambiguità linguistica tra elleboro e veratro: a causa di questa confusione erano stati attribuiti al veratro effetti su psiche ed encefalo che invece erano caratteristici dell’elleboro, con tutte le intossicazioni che scaturivano dalla confusione delle due piante. Mattioli mise sull’avviso medici e pazienti del suo tempo, specificando giustamente che gli effetti sulla psiche erano propri solo dell’elleboro nero: finalmente, a seguito di questo scritto, i medici del XV e XVI secolo abbandonarono il veratro come psicofarmaco.
A seguito dell'utilizzo dell'elleboro per la cura delle malattie mentali nacque il modo di dire "ha bisogno dell’elleboro" per indicare una persona matta.
L'elleboro veniva utilizzato per "curare" le donne particolarmente “esuberanti” (ninfomani): per tenere a freno l’esuberanza sessuale delle donne, l’elleboro veniva mescolato con Chenopodium vulvaria, camomilla, lattuga velenosa (Lactuca virosa, chiamata anche tridace a ricordo del nome dato alla pianta da Dioscoride: Tridax agria) canfora e valeriana; rimedio citato anche da Ildegarda di Bingen nei suoi scritti.
La raccolta dell’elleboro andava effettuata nelle notti di plenilunio. Insieme al temibile Hyoscyamus niger (giusquiamo o erba di Circe), all’aconito napello e alla belladonna, era utilizzato nei filtri che avevano lo scopo di tramutare gli uomini in bestie: da notare che tutte e quattro le piante menzionate hanno un forte effetto allucinatorio, sempre che si sopravviva alla loro somministrazione!
In India l'elleboro si brucia accanto al letto delle partorienti perché per le sostanze tossiche contenute è molto irritante e "affretterebbe" il parto e perché lo spirito degli dei entri nella mente del neonato.
Dioscoride osservò che le viti che nascono nelle vicinanze di molti ellebori producono uva con proprietà purgative.
Aldrovandi a pagina 243 del II volume della sua Ornitologia (1600) parla della velenosità per il pollo delle feci umane contenenti elleboro. Peccato che anche Aldrovandi confonda l'elleboro con Veratrum album. Infatti Aldrovandi traduce male una citazione tratta da Avicenna: "stercus hominis qui bibit elleborum album, necat gallinas" (Conrad Gessner, Historia Animalium III (1555), pag. 384).
Un uso particolare ne fece Paracelso che usò le foglie dell'elleboro per la preparazione di un "elisir di lunga vita".
Negli anni '50 e sino alla fine degli anni '60 del secolo scorso, nei paesi della Val Cavallina (BG), era nato un florido commercio di fiori di elleboro. I bambini, soprattutto, li raccoglievano e venivano acquistati pagandoli un centesimo a fiore. I fiori venivano quindi inviati ai grossisti di Milano, e in Svizzera, dove la raccolta era vietata, ma non il commercio.
La tradizione contadina è particolarmente ricca di aneddoti sull'elleboro: se venivano trovati dodici fiori di elleboro fioriti il primo gennaio ci sarebbe stato un buon raccolto. Se ne venivano trovati sempre dodici entro il 6 gennaio, il vino quell'anno sarebbe stato particolarmente buono. Ma sempre la tradizione contadina dice di non portare mai a casa un elleboro, altrimenti le galline smetteranno di fare le uova. Nel caso invece una bestia fosse stata morsa da un serpente, era necessario forare l'orecchio e infilarci dentro un frammento di radice di elleboro e l'animale sarebbe guarito entro 24 ore. Sempre secondo alcune tradizioni introdurre la radice stessa fra la pelle e la carne degli uomini li avrebbe difesi da ogni pestilenza e ancora la credenza che l’elleboro guarisse la pazzia, in virtù delle sue proprietà starnutatorie: si riteneva infatti che con lo starnuto si allontanasse il demone che aveva sede nel corpo responsabile dell'ammattimento!
Lo storico Pausania ci racconta che durante la prima guerra sacra (595–585 a.C.) che venne combattuta tra l'anfizionia delfica e la città di Cirra, fu proprio l'utilizzo dell'elleboro a sancire la vittoria. (Con il termine anfizionia, in greco antico: Ἀμφικτυονία si indicava, nell'Antica Grecia, una lega sacrale di ἔθνη o πόλεις - polis - che gravitava attorno ad un particolare santuario).
Cirra era una città fortificata che controllava l'accesso a Delfi dal Golfo di Corinto. Questa posizione strategica permetteva ai suoi cittadini di derubare i pellegrini che si recavano al santuario di Apollo a Delfi, di raccogliere le tasse e di annettersi le terre sacre del tempio. Questo comportamento indusse molte delle altre póleis a costituire l'anfizionia delfica, un'alleanza militare dedicata alla protezione di Delfi e muovere guerra a Cirra. Dopo un lungo assedio alla città, l'anfizionia delfica riuscì a vincere perché, come ci riporta lo scrittore e medico Tessalo, gli aggressori avevano scoperto un tubo dell'acqua segreto che conduceva in città rotto casualmente da uno zoccolo di cavallo. Il medico Nebro consigliò di avvelenare l'acqua con l'elleboro: quest'ultimo presto rese gli abitanti di Città deboli procurando loro una diarrea tale da non consentire di continuare a resistere all'assalto. Cirra venne conquistata e tutta la popolazione venne trucidata.
Il significato dell'elleboro nel linguaggio dei fiori è "liberazione dall’angoscia".
NOTE DI SISTEMATICA: le due sottospecie presenti in Italia sono:
- Helleborus niger L. subsp macranthus (Freyn) Schiffner con foglie opache, verde-glauche con larghezza massima verso la metà, margine con denti patenti. Fiori molto grandi con Ø di 8÷11 cm. Presente in Lombardia, Trentino Alto Adige Veneto.
- Helleborus niger L. subsp. niger, con foglie verde scuro lucenti e coriacee lamina divisa in 7÷9 segmenti ellittici dentati per denti conniventi nella metà apicale ricurvi in avanti, poco appuntiti, fiori più piccoli con Ø di 6÷8 cm.
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